Se l'arte è una "divina ossessione", questa spesso si manifesta nella reiterazione del soggetto rappresentato, sia esso "figurativo", come le bottiglie di Morandi o "astratto", come i chiodi di Castellani e le strisce di Buren. Evidentemente questi artisti tendono alla "perfezione" del loro fare e, poiché quella "non è di questo mondo", come Sisifo sono "condannati" alla "ripetizione differente".
Ketty Tagliatti appartiene a questa categoria di artisti: per molti anni ha raffigurato una vecchia poltrona con varie tecniche e poi le rose, anche in questo caso con metodi diversi, ma soprattutto con il disegno, con ricami, ossidi, a volte con le spine in evidenza, con gli spilli,. Oggi la "rosa" viene rappresentata su una struttura che ha le fattezze, e la consistenza, di un "materasso".
Analizziamo, anzitutto, questa icona ricorrente, la rosa. Si tratta delle rose del "mio giardino", come dice l'artista, di un qualcosa che la lega alla natura, ad un fare arte che non sia disgiunto dal quotidiano. Ma poi, al di là della nota tautologia di Gertrude Stein "rosa è una rosa una rosa una rosa", la rosa in realtà più che simbolo positivo per il suo profumo e per la sua bellezza – "rosa fresca aulentissima", dice Cielo d'Alcamo – è simbolo di drammaticità e di tristezza, come se ne accorse quel Magnifico Lorenzo che cantava "[…] Così le [rose] vidi nascere e morire / e passar lor vaghezza in men d'un'ora […]" o François de Malherbe che, a sua volta, recitava "[…] ha vissuto quanto vivono le rose, lo spazio d'un mattino […]". Già qui possiamo cogliere come l'arte di Tagliatti non si colloca nello spazio rasserenante e pacificatore ma in uno più problematico e pensoso, fino a raggiungere la durezza "drammatica" di quelle spine di cui, si dice, non c'è rosa senza, come del resto è la vita.
Or dunque, al di là dei contenuti simbolici che possono essere colti nel soggetto ripetutamente riproposto, è notevole il fatto che Tagliatti – assai prima di tanti artisti che oggi praticano questa tecnica – usi il ricamo, oltre agli strumenti più abituali per la rappresentazione. Questo è un modo tipicamente femminile il cui recupero, una volta superato il fatto che le donne (artiste) debbano rassomigliare agli uomini, "è un tornare alle origini e ristabilire un antico ritmo naturale al respiro psichico femminile", come l'artista stessa ha scritto qualche anno fa.
Ora con gli Ostaggi l'opera di Tagliatti si "ammorbidisce", per così dire, cioè la rosa viene dipinta e trapuntata non più su un supporto bidimensionale bensì tridimensionale.
L'artista realizza, sempre con la forma di una rosa vista dall'alto, una sorta di materasso, soffice e accogliente, sul quale troviamo l'icona solita, pronto ad accogliere un giacente oppure abbandonato da questo, in ogni caso marcante un'assenza.
Così abbiamo un'unità di due "assenze": la rosa che, come abbiamo detto, dura "lo spazio d'un mattino" e un "letto" vuoto, entrambi oggetti dei quali il primo bello e profumato, e il secondo morbido ed accogliente, ma non indicanti gioia o piacere, bensì una certa malinconica tristezza, così come è la condizione dell'"ostaggio", che non è prigioniero in senso stretto ma neppure ospite libero, è solo in attesa, di …?, quindi in una condizione di non definitezza, di solitudine, di sospensione. In più, poiché la superficie su cui si esegue il ricamo è la stoffa per materassi, quella a strisce, il pensiero non può non andare alle "divise" di chi è in condizioni di non libertà.
Sensazioni, queste, che appunto nelle opere più recenti acquistano, anche matericamente, maggiore "spessore", più "corpo", "massa", che evitano la durezza della scultura ma, di questa, ne assumono le forme, il volume, lo spazio, andando a costituire un'opera indefinita sì, ma assai determinata e, diremmo, "dura" pur nella sua "mollezza".
La trapuntatura anche è più marcata, l'ago molto lungo deve penetrare da parte a parte, con un'operazione più faticosa ed incerta, ché qui si va al di là della superficie, per "ricucire – dice ancora Tagliatti – i due versanti, le due identità: il sopra e il sotto".
Va segnalato che, come prodromi di questi "ostaggi-materassi", l'artista ha realizzato, subito prima, degli "ostaggi-quadri", con lo stesso titolo, e gli stessi contenuti ed emozioni, ma di formato bidimensionale, i quali rispetto alle "rose" precedenti segnano una notevole mutazione. La rosa ora viene quasi celata da una garza, bianca o nera o di altro colore, per cui possiamo, anche in questo caso, avere una lettura duplice: da un lato abbiamo l'"occultamento" dell'immagine, rafforzata dalle nette suture-cuciture che legano la garza alla superficie sottostante, dall'altro, proprio perché si tratta di una garza leggera e trasparente, l'immagine è ben visibile, pur attraverso quella sorta di foschia, e le suture, assieme alla stessa velatura, in questo caso possono essere percepite come volontà di protezione della rosa, quindi dei contenuti dell'opera che sono la rappresentazione simbolica del sentire proprio dell'artista.
Orbene: la rosa come metafora della bellezza e della vita che occorre proteggere e conservare, in uno spazio capace e sensibile ad accoglierla, sia esso il morbido materasso o la lieve garza, perché già disse quel soave poeta quattrocentesco, Agnolo Ambrogini detto il Poliziano: "Mentre che il fiore è nella sua vaghezza / coglilo; ché bellezza poco dura. / Fresca è la rosa da mattino, e a sera / ell'ha perduto suo' bellezza altera".
Giorgio Bonomi