venerdì 11 dicembre 2009

ROSE ROSSE PER KETTY





COLLOQUIO DI GIORGIO BONOMI CON KETTY TAGLIATTI



G.B.:Vorrei, invertendo l’ordine temporale, partire dalla tua ultima opera per poi esaminare anche quelle precedenti.
Per la prima volta presenti un lavoro, Anamorfosi di una rosa, che consiste in un’installazione a parete di piccoli oggetti rivestiti di filo rosso. Gli oggetti sono della quotidianità (rossetti, tubetti e scatole di cosmetici e simili) che appunto sono “rivestiti”, non “ricoperti”: ci tengo a sottolineare questo, perché nel “coprire” c’è anche il “nascondere” mentre nel “vestire” c’è il senso della trasformazione, del dare “miseria o nobiltà” a quello che viene avvolto.
L’oggetto quotidiano non è una novità nel tuo percorso operativo – basti ricordare la “poltrona” che per anni hai dipinto, disegnato, cucito sulla superficie della tela – come non lo è l’uso del filo e del “rivestire” che prima era più, se non vero e proprio “nascondimento”, una “velatura”, un “offuscamento” – penso alle garze negli Ostaggi – mentre il filo da elemento “demarcatore” è diventato, via via, sempre più elemento segnico e compositivo e quasi coloristico; ora si presenta in primo piano sulla scena e impone, con forza, il suo essere l’opera, relegando le proprietà dell’oggetto in secondo piano.
Ma c’è di più. Infatti gli “oggetti rossi”diventano segni che disegnano la consueta rosa.
Una rosa che, in tal modo, è sempre meno del “tuo giardino”, meno tautologica (la famosa “una rosa è una rosa una rosa una rosa” di Gertrude Stein) o “ripetizione differente”, per assumere, dopo e più degli Ostaggi, significati plurimi, di cui parleremo appresso, e che ora ci basta definire come “passo avanti” nel tuo andare artistico, che risulta arricchito da una forma personale, tutta tua, di duchampismo (ricordiamo che Duchamp e Man Ray, oltre a presentare oggetti come trasformati in opera d’arte, talvolta li “rivestivano”).

k.T.:Ho bisogno di identificare una metafora, un’immagine che in un qualche modo mi rappresenti e che faccia parte del mio quotidiano, diventando un significante nella mia storia.
Così è stato con la poltrona che ho rappresentato per ben otto anni, dal ’96 al 2003, scelta tra i mobili irrestaurabili che avevo nel laboratorio di restauro aperto nel 1992, appena finita l’Accademia. Metafora fortissima e molto femminile come del resto anche le rose del mio giardino.
Mi sono accorta, poi, che nel passaggio dalla poltrona alle rose vi è stata un’evoluzione, un passaggio ulteriore. Con le rose ho privilegiato l’aspetto spaziale, ho forzato il lavoro di superficie ed esaltato l’aspetto decorativo, alleggerendo il messaggio esistenziale ma non per questo depotenziandolo.
Con gli Ostaggi, o “rose materasso”, mi sono liberata della struttura del telaio ed improvvisamente mi si è aperto veramente lo spazio. Quest’ultima installazione, con gli oggetti rossi, è la dichiarazione di questo passaggio. Ogni oggetto è avvolto in un bozzolo di filo rosso, come un baco da seta, come una crisalide. Inserire un oggetto quotidiano nel lavoro è memoria storica del vivere minutamente, dimensione metafisica della routine gestuale della normalità, appartenente alla ritualità giornaliera che scandisce il ritmo della vita dandole senso e sopportabilità.
Rosa, spazio simbolico, territorio di movimento, atto del corpo, quello femminile, armonia, bellezza, compiutezza ed equilibrio. Rosso, colore del sangue, della passione del corpo e ...delle rose.
La scelta di dare una lunga e lenta sedimentazione al tempo di costruzione di questa installazione, ho impiegato un anno e mezzo, ha un’importanza maggiore rispetto al fare lento degli altri lavori.
Questo quotidiano realizzare il gomitolo, occultando pazientemente il vuoto testimone della paura del mio tempo che passa, è una lenta presa di coscienza della trasformazione del corpo, è una dichiarazione del passaggio, la percezione del cambiamento definitivo, quello che si potrebbe chiamare: ultima fase della vita, la più importante e risolutiva, l’inaccettabile e temuta che in questa nostra epoca è un tabù assoluto, impronunciabile. Nessuno può rinunciare alla giovinezza e il traguardo è l’immortalità.
Infine, la costruzione dell'immagine e la scelta di esporla nello spazio attraverso la deformazione anamorfica, che si avvale dell'illusione ottica della prospettiva e di un unico punto di vista per poter riconoscere la sua forma estetica (di rosa), è nata dall’esperienza dalla collaborazione di una giovane artista agli esordi, Elisa Leonini, che fa dell’anamorfosi la sua poetica, determinante e funzionale al senso del lavoro.
Metterci a confronto davanti al lavoro, ma non solo, anche di fronte ai nostri percorsi di vita: il suo, fatto di progetti, intenzioni, che andrà a svolgersi come i miei bozzoli rossi, liberando e concretizzando le aspettative racchiuse in questi, il mio che si è già svolto per la maggior parte e ha mantenuto l'intensità della passione per il fare arte, per vivere la mutazione quotidiana del pensiero creativo, in un' eterna evoluzione del riproporsi a continua rinascita. Questo intreccio di diversi sentire, ma soprattutto il sovrapporsi di due diversi tempi di prospettive di vita, ci ha avvicinate e modificate da poter entrare fisicamente l'una nel lavoro dell'altra e lasciarne una traccia, un unico punto di vista, che coordina lo sguardo e organizza il caos, il vortice di momenti diversi nel tempo e nello spazio anamorfico.

G.B.:È interessante quanto dici, per due aspetti. Il primo consiste nel fatto che tu quasi “ricostruisci” una bottega d’arte, cioè l’assistente non è quello che “pulisce i pennelli” o “prepara la tela”, bensì un soggetto attivo che stabilisce uno scambio fattivo con il “maestro”, realizzando quel vecchio precetto secondo cui “anche il maestro deve essere educato” (dai propri allievi).
Fatte le debite proporzioni, mi pare che tu riviva questa atmosfera, e quindi superi uno dei “drammi” degli artisti di oggi, quello della “solitudine”.
Da un altro lato, tu, da un lavoro basato sulla ripetizione, angosciosa e testarda, della rappresentazione di un soggetto (poltrona e rosa), anche se carico di storia (fatti, emozioni, ricordi), passi ora ad un artificio che è un virtuosismo, anche se implicante forti e profonde riflessioni sull’essere e l’apparire.
Come sai, anamorfosi significa letteralmente “rigenerazione”, da cui “di nuova forma”, perché dalla deformazione grafica dell’oggetto rappresentato possiamo “ricostruire” una visione corretta solo ponendoci in un determinato punto di vista; in più le anamorfosi producono un fascino particolare anche perché, al di là della precisione tecnica, suscitano un’idea di mistero.
Allora dalla “poltrona” dei “tuoi” mobili, dalle “rose” del “tuo” giardino, messe sempre bene in evidenza – anzi, per ricordare che “non c’è rosa senza spine”, a queste aggiungi degli spilli che rendono perfettamente la sensazione della puntura – passi ad una forma di “occultamento” o, per lo meno, di un nascondimento dell’oggetto che può essere visto solo da pochi, solo da chi “entra in empatia” con te, o perché sa (leggere un’anamorfosi) o per caso. Voglio dire che ora c’è un velo da sollevare per poter comprendere il tuo messaggio artistico e per poter, quindi, con l’occhio e con il cervello dialogare con te (con il frutto della tua creazione).
Ma c’è di più. L’arte si è sviluppata su un rapporto analogico con la natura (la realtà), cioè la creazione artistica si è fondata, per secoli, sull’aristotelica “mimesi”, o imitazione e, in questa ottica, la prospettiva albertiana, sebbene fosse essa stessa una “illusione”, era quella che meglio rispondeva alla possibilità di riprodurre la natura o la realtà “così come si vedono”. Con l’anamorfosi – la parola compare nel sec. XVII, ma già nel XVI veniva realizzata – si introduce un concetto di “deformazione” (Roland Barthes). “L’anamorfosi si configura come finzione contrapposta, da un lato, alla prospettiva normalizzata, dall’altro, all’indice di realismo analogico che si suppone essa veicoli. È una tecnica delle allucinazioni, un’operazione intrisa di elementi magici, che consente un potenziamento della percezione visiva” (Attilia Scarlini e Giorgio Marcon, Artificio: prospettiva e anamorfosi, in L’altro occhio di Polifemo, catalogo della mostra a cura di Giorgio Celli, Galleria d’arte moderna, Bologna, marzo-aprile 1978, ed. Grafis, Bologna 1978).

K.T. :L’immagine della bottega rinascimentale mi piace molto ma la mia esperienza è stata un po’ più complessa. Certamente la solitudine intellettuale isola e rende sterili, ed occorre contrastare questo processo.
In questi ultimi tre anni, pur non insegnando, ho avuto degli studenti che si sono interessati a me chiedendomi di poter fare la tesi sul mio lavoro, questo mi ha spinto ad invertire l’attenzione su di loro e a scoprire il piacere di lasciarmi contaminare dalle loro sperimentazioni e dal loro modo di vivere la ricerca. Per fare questo ho proposto ad alcuni di condividere un periodo, lavorando gomito a gomito in due studi comunicanti, entrando reciprocamente nel lavoro dell’uno e dell’altro come esperienza avventurosa e catartica. Esperienza rigeneratrice che ti muta radicalmente (almeno per quello che mi riguarda), ma solo se hai la consapevolezza che non è un gioco, ed il coraggio di metterti in discussione senza bluffare.
È chiaro che, essendo il soggetto del mio lavoro “il fare”, ci si misura nello studio su questo e sui contenuti di questo e può sembrare, in certi momenti, di ricreare l’atmosfera della bottega, ma in realtà è un gioco al massacro intellettuale e a chi ha più attitudine alla resistenza. È un duellare di sensibili significanti, di metafore, un confrontarsi nell’abilità di sapersi rivisitare senza perdersi di vista, senza tradirsi mai.
Ho accennato alla continua modificazione che il mio lavoro ha subito nel passaggio dalla poltrona alle rose del mio giardino, accentuando l’azione sulla superficie e quindi l’aspetto decorativo che si lega al fare artigianale, accorgendomi, così, quanto fosse determinante il tempo di esecuzione e la fatica che compiono le mani in questa. È diventato così fondamentale e significativo ciò, da dover ricercare sempre ogni volta una tecnica nuova per leggere, in questa fatica dichiarata, la rivelazione della temporalità estetica del “fare”, come direbbe Heidegger: la temporalità del prendersi cura, in senso ontologico-esistenziale, della minuta quotidianità.
Utilizzando ancora i termini filosofici di Essere e tempo di Heidegger: l’uso dell’anamorfosi è, in questa installazione, proprio come tu suggerisci, la necessità di velare ulteriormente l’opera trasformandola in epifania, illuminazione… evento che si concede e si nega, Ereignis.

G.B.:Orbene, se l’anamorfosi deve “disvelarsi”, le “rose” e i “materassi” o “trapunte”, al di qua del loro senso metaforico più profondo, si danno così come sono (sono come appaiono). In realtà già le rose titolate “ostaggi” erano “velate” con una garza, quindi da qui partiva quello che chiamo “occultamento”.
Ma andiamo un momento alle Rose del mio giardino, qui la rosa aveva la stessa funzione (solo formale?) delle bottiglie – potremmo dire: del “suo studio” – di Morandi: il continuo, indefessamente sisifiano, tentativo di raggiungere la “completezza” o “perfezione” che, data la finitezza dell’uomo, non è cosa possibile, anche se va sempre rammentata la chiusura de Il mito di Sisifo (ed. Bompiani, Milano 1962, p.164) di Albert Camus: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.
Inoltre non possono non esserci tutti i richiami simbolici della rosa, di cui è piena tanta letteratura: profumo, bellezza, caducità eccetera. Ma forse questi aspetti simbolici sono quelli che meno ti interessano, invece la superficie dell’opera è sempre più “lavorata”, sempre più piena della “fatica del tuo fare”, della condensazione del tempo (lento, lentissimo) impiegato dalle mani nella creazione. Così la superficie si arricchisce di segni e di materiali, infatti il filo si dipana, via via, più fitto ed articolato nel disegno, si aggiungono prima spine e poi spilli, stoffe; in più, oltre la tela, riprendendo materiali da te usati nei primi lavori, usi ferro e vetro (inciso).
Quindi il “fare” come un demone che ti possiede, ti porta a dare “corpo” alla “rosa” (alla tela): abbiamo gli Ostaggi, realizzati con la struttura materiale delle trapunte o dei materassi, anche se ovviamente di questi non hanno la forma, bensì evocano ancora quella di una “rosa”.
Non solo: la massa, il corpo di questa nuova forma/struttura richiede maggior fatica ma, allo stesso tempo, rende l’opera più “molle”, si offre con un aspetto più “accogliente”; quasi a negare il detto, sopra ricordato, potremo dire che “non è vero che non c’è rosa senza spine”.

K.T. :Che non ci siano “rose senza spine” è una grande bugia, come tu mi suggerisci. Anzi sono le più ricercate proprio per questa loro caratteristica non armata, senza protezione, sono le più disponibili, quelle che abbattono ogni diffidenza, ogni recinto, ogni segregazione.
Negli Ostaggi, come ho già detto, mi libero della struttura del telaio, che nei miei quadri è sempre stata un’armatura geometrica che bloccava concettualmente il lavoro, lo congelava in uno schema fisso, rigido, inoppugnabile e credo che questa struttura rigorosa sia stata come un confine, un limite da non superare, una staccionata protettiva (nel periodo della poltrona, ho intitolato alcuni quadri dal ciclo il IV muro – Sipario n., rappresentando così quella barriera invisibile che, in teatro, divide la platea dagli attori, e che si fa confine da superare per raggiungere il pubblico, ma anche protezione della finzione recitata sul palcoscenico); togliendola, perdendo questo tipo di vera e propria barricata, il lavoro si concede ad accogliere fisicamente, si fa nido, giaciglio morbido, rose-materasso, sì ma come letti vuoti, corolle che accolgono e abbracciano desolatamente un non-corpo, un’assenza.
Nel mito di Sisifo posso riconoscermi, non solo nel ripetere all’infinito lo stesso percorso, che nel mio caso è la rosa che si fa territorio del “fare”, ma anche nel significato di “ostaggio” come prigioniero sequestrato da un incantesimo castigante, come nel caso di Sisifo risalire ripetutamente la montagna, con la fatica del non senso della pietra e ridiscendere ogni volta con la consapevolezza dell’inutilità del lavoro.
E potrei continuare con la stessa citazione (op. cit., p. 163), di Albert Camus: “ Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni”, con questo torniamo sempre al potere del “fare” e al mio credere assolutamente in questo, che si trasforma, come tu sostieni giustamente, in un demone che mi possiede…e dà corpo alla rosa che si fa, come direbbe Aristotele, “telos”…

G.B.:Cioè “fine”, nel duplice senso di “scopo”, come bene hai fatto capire, e di “termine”, perché, per questa volta, il nostro colloquio è purtroppo “finito”.

"Uncle Albert/Admiral Halsey" By Paul McCartney

Paul McCartney-Let 'Em In

Billy Paul - Let Em In (live)


ostagio n°2 2008

ostagio n°2            2008
dimensioni cm.250x240x29 tecnica : pittura su stoffa, imbottitura di cotone e trapuntatura da materasso

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Ferrara, Fe, Italy
vivo e lavoro in provincia di Ferrara come artista (per tutta una serie di motivi...)