domenica 25 maggio 2008

L'opera di Mona Hatoum metafora dell'expanding self

L'opera di Mona Hatoum è influenzata dalla metafora dell'expanding self. Lucy Lippard afferma che l'uso da parte degli artisti dell'expanding self è una metafora per rimuovere i confini dell'identità individuale verso l'esterno allo scopo di includere altre donne e altre persone. Il postmoderno afferma che il sé è un ibrido e non è un essere fissato o una data essenza. Il sé è iscritto in diversi luoghi e diverse tradizioni discorsive, che cambiano e mutano.Mona Hatoum rappresenta un "estranged self ", in esilio dalla lingua e dalla sua identità originaria. L'artista palestinese connette distanza, memoria e identità al corpo materno. In Measures of Distances, del 1988, lo straniamento dal corpo materno e dalla terra madre è codificato figurativamente nelle iscrizioni arabe delle lettere inviate dalla madre alla figlia in esilio. Hatoum stabilisce una serie di collegamenti tra il corpo femminile, l'identità soggettiva e lo sguardo etnocentrico. Nonostante nelle opere iniziali l'artista abbia usato il suo corpo nelle performance come una metafora dell'oppressione razziale e sessuale, qui il corpo dell'artista è assente dalla rappresentazione.
L'immagine multistrato dei frammenti della lingua materna, della tristezza della voce narrante suggerisce un continuo dialogo tra madre e figlia oltre la distanza e il tempo. L'identificazione nella sessualità della madre e del suo esilio dal corpo e dalla terra materna sono costantemente
evocate. Le linee della scritta formano una barriera permeabile quasi come un filo spinato tra il soggetto e il pubblico, distanza resa ancor più potente per coloro che non parlano arabo e che non sono in grado di leggere la scritta. La parola scritta diventa la life-line, un cordone ombelicale che collega la figlia alla madre.
Secondo Desa Philippi l'opera di Hatoum richiama la proposta di Paul Gilroy secondo la quale noi, come soggetto, abbiamo bisogno di posizioni altre rispetto a quelle del carnefice attivo o della vittima passiva. Gilroy auspica la figura dello spettatore attivo, dell'osservatore impegnato in grado di riflettere e interagire col mondo piuttosto che lo spettatore passivo, incapace di elaborare e chiuso nel proprio mondo. La nostra posizione come testimoni può sfidare l'interpretazione degli eventi e conferire loro nuovi significati. L'identità presuppone l'abilità di agire con le proprie narrative, con la storia e nella cultura.

( Il presente lavoro è tratto dalla tesi di laurea di Stefania Lodi Rizzini intitolata "Identità femminile nell'arte contemporanea
britannica)

Mona Hatoum: riconoscere la prigione


Un carcere franchista del Novecento, quello di Salamanca, edificio imponente, sede di chissà quante ingiustizie e sofferenze, è stato recentemente trasformato, in un centro di arte contemporanea ("Centro de Arte de Salamanca" - CASA). Le anguste celle dove vivevano i prigionieri del franchismo sono state conservate nel loro tetro aspetto originale, mentre a dare l'incipit alla costituzione di una collezione permanente è stata chiamata l'artista palestinese Mona Hatoum, che ha interpretato una delle pesanti porte girevoli di metallo dell'antico carcere come l'occasione di un'interazione fra il centro e i visitatori (questi passano ad uno ad uno attraverso la porta girevole, che li rinserra in un cunicolo mobile claustrofobico, mentre il ritmo regolare del movimento della porta è scandito dal friggere spettrale di alcuni pallidi neon. Ma Mona Hatoum è artista capace non solo di trasformare un vero carcere in un'opera o in un'occasione d'arte, la quale innesta il sentimento della prigionia negli spettatori, ma anche di cogliere le situazioni carcerarie che si annidano in quella finzione che chiamiamo la nostra libertà quotidiana, e che viene passivamente accettata come tale nell'ottundimento generale del pensiero critico. Mona Hatoum rivela l'amarezza del mondo che a volte si cela nella routine attraverso diverse strategie di straniamento. Una di esse è l'ingigantimento: gli oggetti quotidiani, una volta ingranditi a dismisura, si rivelano spesso minacciosi. Ed ecco che una grattugia gigante diventa la membrana impenetrabile di uno spazio carcerario, come nell'opera del 2002 "Grater Divide" ("grattugia/separè"), il cui titolo inglese gioca con le omofonie delle parole "greater", "più grande" e "grater", "grattugia", per segnalare il confino domestico nel quale le pratiche quotidiane della preparazione dei pasti segregano la donna palestinese.
Oppure un macinino da caffè si trasforma in un oggetto mostruoso, a metà strada fra il carroarmato e la formica assassina. In altri casi, Mona Hatoum lavora aggiungendo trame o dettagli inquietanti agli spazi della quotidianità. Si consideri, come esempio di questa seconda strategia, l'installazione, presentata nel 2000 a Documenta 11 ed intitolata "Homebound" (che si potrebbe tradurre, non letteralmente ma rendendo il senso del gioco di parole, con "vincolo
familiare"), in cui lo spettatore è posto di fronte ad una casa elettrificata, ove ogni oggetto emana la minaccia di una scossa. Infine, una terza strategia consiste nell'arrangiare gli oggetti in modo inusuale, o di modificarli leggermente, così da estrarne il demone nascosto. Si pensi a come l'artista condensi il vortice dell'alcoolismo, altra prigione di molte vite vissute nel chiuso delle mura domestiche, in un circolo vizioso formato da bottiglie ("Vicious Circle" - "circolo vizioso", opera presentata per la prima volta nel1999): Questo ed altri letti di Procuste attendono ancora il loro Foucault.

Tratto da:" Architetture per sorvegliare e punire" Massimo Leone Golem, n. 1, gennaio 2003

L’IDEOLOGIA COME DECORAZIONE E L’ARTE COME INVENZIONE

Nicolas Bourriud

La perplessità degli artisti all’evocazione della parola “arte” la dice più lunga sull’evoluzione del pensiero contemporaneo che tanti trattati di estetica.

Ma il termine non è privo di senso, al contrario: trabocca, al punto che oggi sarebbe difficile vedervi altro che una piattaforma costituita dalla sedimentazione dei suoi significati successivi….”Arte” è diventata una parola-parking che si svuota e si riempie in permanenza, di volta in volta ingorgata o disattesa, e posta sotto la tele-sorveglianza dei critici-controllori.
O anche una parola-poltrona, che la società dello spettacolo impiega solo per adagiarvi meglio la sua buona coscienza culturale.

Quale potrebbe essere il punto comune tra l’insieme degli oggetti e dei luoghi raggruppati sotto il vocabolario “arte mussulmana”, un saggio di Daniel Buren, l’arte naif, la decorazione, l’artigianato pittorico che consiste nel produrre dei begli oggetti, ed un “pensiero visuale” operante in situ? Una tale “locanda spagnola” continua si a significare qualcosa, ma al modo dei gioielli di famiglia, o delle parole ad uso comune.
E tuttavia parecchi artisti continuano a fare riferimento a definizioni dell’arte millesimate, imbottigliate ai tempi di Mondrian e Braque, o di Marie Lorencine. Ma ci sembra impossibile, sostenere seriamente che un artista contemporaneo, anche se utilizza – e non è poi molto frequente – i metodi e i supporti di un artista del XIX secolo, condivida con lui qualcos’altro che un sentimento di appartenenza a una corporazione, e la ricerca di una competizione spirituale con gli stessi fantasmi …Che cosa definisce un’attività se non i suoi obiettivi e la sua funzione sociale? Entrambi sono cambiati così radicalmente a partire dall’inizio del secolo e, di nuovo, dopo ventenni, che non intrattengono che dei rapporti tanto lontani – e tanto poco essenziali – quanto quelli che una bicicletta può avere con un’auto da corsa: il circuito non è più lo stesso e nemmeno i mezzi…
Tutto qui, ma non è poco.

L’idea che esista una ”essenza” immutabile dell’attività artistica, definita una volta per tutte e valida dalla grotta di Lascaux alle piantagioni di querce beuysiane, non serve altri interessi che la società dello spettacolo: se l’arte è data una volta per tutte, le deviazioni e i refusi non possono prestarsi ad alcuna conseguenza…Se l’arte è un campo chiuso, che non permette che un numero limitato di colpi, uscirne equivale a marginalizzarsi, a ritrovarsi fuori gioco, fuori dalla linea storica che giustifica e organizza l’attività artistica.
Pensare che l’arte sia una nozione data una volta per tutte è certo negare la sua storicizzazione come modello a profitto della storicizzazione dei suoi prodotti: le opere, gli stili. Significa evitare di porre la questione della natura, del ruolo e degli obiettivi che ogni società assegna ai suoi artisti, evitare di cercare di sapere come il potere controlla il fatto artistico, attraverso i modelli successivi che gli si propongono; ed inoltre significa rifiutare anche di vedere che la grandezza degli artisti odierni risiede in parte nella deformazione di quei modelli, e nella ricerca di altre strutture suscettibili di sopportare il loro discorso.
Non è un caso se gli artisti non cercano più veramente di sapere che cos’è l’arte: essi sanno troppo bene che cosa si nasconde dietro l’idealismo che consiste nel porre l’arte come un fatto acquisito.

Nulla è meno sicuro, infine, che l’esistenza di un’attività denominata “arte” !!!

Questo slittamento, ricondotto in ambito filosofico, è ancor più patetico: così quei critici che applicano alla lettera i programmi di Kant o di Hegel senza rendersi conto che l’oggetto dell’estetica si è trasferito. Oggi sappiamo che l’estetica non è affatto la scienza dell’arte, ma un modo di conoscenza storicizzato, valido in un dato momento, riguardante un certo tipo di arte, e mantenuto in respirazione artificiale da un buon numero di critici, come se lo sguardo sull’arte non potesse esercitarsi se non a partire dalle regole canoniche dello studio della percezione. Ecco di cos’è fatta la nostra attualità: dotti osservatori che applicano griglie dell’altro ieri su delle opere di ieri; artisti che fingono di dialogare con Rembrandt per meglio evitare di guardare i loro vicini di pianerottolo; messa in questione dei modelli storici da parte di estetologi che ignorano i modelli reali delle arti contemporanee. Se la critica si nutre di questi cadaveri teorici, è perché la loro carne molle le permette di mantenere senza troppa fatica l’illusione di avere ancora denti buoni per masticare.

Tratto dall’articolo di Flash Art anno XXV –N°167 aprile-maggio 1992

giovedì 8 maggio 2008

COME

LA TECNICA SECONDO HEIDEGGER fa proprio l'ultimo passo sulla via dell'eliminazione di ogni residua differenza tra realtà "vera" e realtà "empirica".
L'organizzazione totale attuata dalla tecnica non è più solo nella teoria, ma si concreta effettivamente come ordine del mondo. "il linguaggio è la casa dell'essere" il linguaggio è la custodia della presenza.
Il linguaggio è annuncio, appello, e usa l'uomo come proprio messaggero.
Il linguaggio è monologo, cioè, è il linguaggio soltanto che parla, e parla esso solo.

"il linguaggio è la sede dell'evento dell'essere"

Le cose non sono anzitutto e fondamentalmente cose in quanto presenti nel "mondo esterno", ma nella parola che le nomina originariamente e le rende accessibili anche nella presenza spazio-temporale.
Il pensiero è fondamentalmente un ascolto del linguaggio nella sua originaria poeticità, per questo l'elemento, dentro cui la nostra esistenza si svolge, è la vicinanza di pensare e poetare.
In quanto è ascolto del linguaggio, il pensiero è ermeneutica. ( dottrina dell'interpretazione).

Heidegger


" La tecnica, ormai, non esiste. E' un'illusione." È il nostro modo arcaico di trasformare la natura a nostra immagine e somiglianza, modificando i nostri gesti quotidiani in atti eterni e divini che ci resistano, che sopravvivano a noi.
Quello che abbiamo perso è quel sentimento rinascimentale di dominio del nostro fare, che rassicurava la nostra esistenza, che ci permetteva di immaginare e costruire con le nostre mani un chiaro percorso della nostra vita in equilibrio con il mondo; la tecnica era questo, un metodo scientifico per costruire e dominare il nostro destino.

E' proprio vero che l'Arte è morta e noi viviamo costantemente con il suo rimpianto, cercando con struggente sentimento di nostalgia, con gli occhi, qualsiasi cosa che in natura possa ricordarcela.

In questa breve epoca di non senso( breve perché è vicina al collasso), dominata dal caos, dove siamo costretti a vivere nella perenne contraddizione e in continuo pericolo di vita, il senso della tecnica, come dominio del nostro fare non può esistere, si è sostituita, per noi artisti, con la ricerca degli occhi.
Gli occhi cercano ovunque con il desiderio di ritrovare un senso delle mani e si soffermano sulla Natura perché è l'unica che possiede ancora il segreto del tempo, nelle fasi di un divenire.

Ora che l'uomo è in una fase di grande evoluzione e la sua capacità di percezione si è modificata come la sua concezione del tempo, che sicuramente è più compressa, più accorciata, come si è accorciato il gesto del suo braccio, mi interessa il tempo di durata dell'attraversamento del fare che si forma nell'emotività soggettiva dell'esperienza.

Penso che la forza di un lavoro derivi dalla scelta di un soggetto che è già un significante e dalla riduzione o semplificazione della volontà narrativa che si ha nelle mani.

La scelta di una tecnica è già nella scelta del soggetto stesso; è la sintesi di ciò che è il soggetto scelto e ciò che si diventa davanti ad esso. E' sempre un rapportarsi, un varcare la soglia tra dentro e fuori, senza mai esporsi troppo. Spostare l'attenzione sul "fare arte" è per me, il vero soggetto e contenuto che rincorro costantemente.

Affermando che la "tecnica non esiste", dichiaro che questa non è più uno strumento d'espressione, ma l'ESPRESSIONE , il significante dell'opera.

martedì 6 maggio 2008

ATELIER, stanza del fare

La terra possiede l’energia vitale della germinazione e la capacità di rigenerare continuamente il ciclo della vita e della morte.

L’occuparmi di un giardino, per la prima volta nella mia vita e doverlo organizzare, dividendolo in spazi e percorsi con specifiche funzioni, dando loro relative fisionomie paesaggistiche adeguate alla sosta e alle esigenze del pensiero, mi ha fatto scoprire cosa significa avere un rapporto diretto con questa e quanto intenso possa essere lo scambio reciproco.

Nell’intercalare delle stagioni, ho scoperto un tempo naturale al quale è legata obbligatoriamente la nostra vita e che scandisce il nostro respiro e ci accomuna così con le piante; affinando una sensibilità e un’attenzione alla natura che rivela un atteggiamento zen verso il tempo e lo spazio.

Coltivare le rose del mio giardino e sentire l’esigenza di inserirle come soggetto nel mio lavoro, si veste di una ritualità che si avvicina a quella orientale del culto del thé; dove veniva, per l’occasione, sacrificata la vita di un fiore che assumendo in quel caso il significato simbolico della vita in senso lato, aveva bisogno, proprio per sottolineare questo senso sacrificale, di una collocazione e disposizione estetica in uno spazio, la stanza del thé, riservato e costruito appositamente per questa cerimonia religiosa.

Per raggiungere questo spazio di culto, bisognava attraversare un giardino, che in questo caso esercitava il ruolo di percorso meditativo, con la funzione di liberare l’animo dalla pesantezza dei pensieri quotidiani e prepararlo ad accogliere il rito purificante del thé.

Nel mio caso, il rito purificante è il fare arte e anche per me, prima di entrare,nella stanza del fare, cioè nell'atelier devo passare attraverso un giardino, che ha il ruolo di ricomporre il mio equilibrio interiore ricollocandomi in una giusta dimensione energetico-esistenziale.

lunedì 5 maggio 2008

RESPIRARE LENTAMENTE


E' tornato il caldo e sono sbocciate le rose in giardino.

La vita qui è scandita da piccoli gesti di cura ,che rassicurano il respiro.

Tutto va avanti serenamente .

La serenità è uno stato d'animo fuori moda, come la regolarità del battito cardiaco e la lentezza del sorgere del sole.

Mi meraviglio sempre di scoprire come il mio lavoro sia estremamente astratto: "gioco sulla superficie, con i materiali e uso un'immagine solamente come veicolo, che mi introduce in un viaggio alla ricerca del senso della perdita di senso".

ostagio n°2 2008

ostagio n°2            2008
dimensioni cm.250x240x29 tecnica : pittura su stoffa, imbottitura di cotone e trapuntatura da materasso

Informazioni personali

La mia foto
Ferrara, Fe, Italy
vivo e lavoro in provincia di Ferrara come artista (per tutta una serie di motivi...)