sabato 25 ottobre 2008

Collettiva "FIL ROUGE" Home Gallery MLB di Marialivia Brunelli Ferrara

http://www.marcocaselligalleries.com/57_MLB

ANILA RUBIKU
ARIANNA CALLEGARO ideatrice di AIRSWAP
ERICA LATINI
ILARIA MARGUTTI
LETIZIA CARIELLO
KETTY TAGLIATTI

venerdì 24 ottobre 2008

QUASI



Sono passati alcuni mesi e non è cambiato "quasi" niente; quel "quasi"
però nasconde, vela qualcosa di sostanzioso che fa la differenza.
Quasi…. è intriso di tempo che passa e che, anche se nessuno se ne è
accorto, ha mosso tutto, ha sedimentato gli umori, ha spento un po' i
rancori, ha lasciato tutto in sospensione filtrandolo dalle difese e
le paure azzardanti. Quasi, ha mantenuto in vita una lieve e flebile
speranza di resistenza,…. persistenza abitudinaria, un moto di vita
meccanico e inconsapevole, fedele al progetto per derivazione.
"Quasi" è la mia dimensione esistenziale: quasi libera, quasi felice,
quasi ricca, quasi amata, quasi indispensabile, quasi disinvolta,
quasi bella, quasi magra, quasi conosciuta, quasi artista………Ho quasi
consumato buona parte della mia vita.

sabato 2 agosto 2008

incontro... con lei

Chiedo scusa, perché può sembrare troppo autoreferenziale, da parte mia, pubblicare questo pezzo, ma è stato scritto da una giovane artista, forse troppo generosa nei miei confronti, che in ogni caso, mi ha sorpreso, per la sua abilità d'interpretazione e per la sensibilità dimostrata nel accostarsi a me, e al mio lavoro, con autentica intensità poetica.
Ho pensato che meritasse un pubblico ringraziamento.
Ketty Tagliatti



"La sua vitalità mi rapisce fin da subito.
Il suo modo sciolto e accattivante di parlare è piacevole e allo stesso tempo crea un clima
confidenziale.

Bocca piccola e parole forti.
Questa sua caratteristica subito mi fa sentire in sintonia con lei.
Ci raccontiamo sensazioni e pensieri sul fare tessile e poi vedo le sue rose.
Folgorante... filo diretto con l'interiorità femminile.
Sensibilità, crudezza, eleganza, psiche, tutto è lì sulle sue tele vissute e ricamate.
L'intreccio emozionale che si crea nei suoi lavori è uno specchio
acuto e penetrante di un viaggio, di un eco, di un sentire legato alla dimensione "donna".
Il ripetersi incessante di cuciture che si incontrano e si attraversano mi parlano delle connessioni mentali, degli intrecci della vita, delle situazioni che creano il percorso di ognuno.
Mi mostra i lavori rossi, con le loro trasparenze e i loro rapporti silenziosi.
Piccoli rami avvolti di filo rosso che si confidano elegantemente con lo strato di tessuto che li nasconde nel gioco di trasparenze che si crea con la luce.
Tutto parla di sensibilità, di voci interiori che prendono significato e corpo in un gioco di echi visivi che risvegliano questioni, dubbi, pensieri intimi.

Le stoffe nel lavandino si stanno colorando.
Mi guardo intorno e vedo lei, la poltrona, bellissima, che troneggia nello studio, riservata.
La riscopro in casa, in ogni angolo c'è traccia di lei.
Si legge l'ossessione quasi romantica di Ketty per questo oggetto, si sente la confidenza che le sue mani hanno acquistato disegnandola all'infinito.
La stessa impressione avuta con le rose, create con consapevolezza.
La sua personalità prorompente si sente nell'aria e in tutto quello che ci circonda.
Fuori dalla finestra si intravede il giardino delle sue rose; guardando dei cataloghi ne scorgo una che mi attrae particolarmente: la sua struttura è raccontata dai movimenti delle centinaia di spilli che riempiono i petali. Sono splendenti, sembrano lacrime preziose, tracce di qualcosa che ha lasciato un segno. Si creano così dei rilievi che assomigliano a grandi cicatrici ed è così forte l'impatto visivo che non capisco se soffrire per il fatto che la rosa è ferita o compiacermi per lo spettacolo di luccichii che emanano gli spilli.

Emotivamente mi sento combattuta.
Penso che questo forte contrasto sia al centro del lavoro di Ketty, si può notare in tutti i lavori, c'è l'eleganza delle sue rose sempre legata alle cuciture che creano i loro petali, sembrano ritratti scavati con il bisturi.
Non meno incisivi e affascinanti sono le grandi rose-materasso.
Corpi quasi informi che sembrano pulsare, pieni di vita e tormento;
culla infastidita dalle torture lente e penetranti delle cuciture.
Queste prepotenti rose prendono la scena e non danno via di scampo allo sguardo, se ne appropriano e lo conducono lungo i fili della loro storia, delle loro cicatrici, cucite rapidamente e poi rianalizzate con violenza, con una lenta operazione che ferisce i loro tessuti, segnandoli definitivamente .
La parvenza morbida, nasconde nodi di ricamo e scomodità di forma e superficie.
Un piccolo rifugio che diventa prigione dei tormenti, delle paure, dei sensi di colpa, di tutto quello che farcisce un dolore.
Osservandole singolarmente, mi rendo conto di quanto abbia influito sulle rose, il fatto che Ketty le abbia schiacciate, tirate, gonfiate, cucite e ricucite, che ci si sia sdraiata sopra, che se le sia vissute, perché tutto traspare, sembrano stanche e affaticate da una lotta corpo a corpo.

In tutto questo però, trova spazio una visione d'insieme molto poetica e accattivante, le forme manifestano comunque la loro femminilità e la grande sensibilità di Ketty traspare anche in
queste creazioni.


Chiara Intropido

martedì 29 luglio 2008

OMBRE ARTIFICIALI



"Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l'entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi siano dentro sin da fanciulli, incatenati gambe e collo, tanto da dover restare fermi e da poter veder soltanto in avanti, incapaci, a causa delle catene, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce di un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo a questa pensa di vedere costruito un muricciolo come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare, la di sopra di essi, i burattini.

"Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno in qualunque modo lavorate; e, come naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.

"Credi che i prigionieri della caverna possano vedere altro innanzitutto di se stessi e dei propri compagni, se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? Se questi prigionieri potessero conversare fra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? E se la prigione avesse pure un eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell'ombra che passa?

"Per tali persone, insomma, la verità non può essere altro che quella delle ombre artificiali degli oggetti"

(Platone, Repubblica, libro VII)


venerdì 11 luglio 2008

OSTAGGI

Se l'arte è una "divina ossessione", questa spesso si manifesta nella reiterazione del soggetto rappresentato, sia esso "figurativo", come le bottiglie di Morandi o "astratto", come i chiodi di Castellani e le strisce di Buren. Evidentemente questi artisti tendono alla "perfezione" del loro fare e, poiché quella "non è di questo mondo", come Sisifo sono "condannati" alla "ripetizione differente".

Ketty Tagliatti appartiene a questa categoria di artisti: per molti anni ha raffigurato una vecchia poltrona con varie tecniche e poi le rose, anche in questo caso con metodi diversi, ma soprattutto con il disegno, con ricami, ossidi, a volte con le spine in evidenza, con gli spilli,. Oggi la "rosa" viene rappresentata su una struttura che ha le fattezze, e la consistenza, di un "materasso".

Analizziamo, anzitutto, questa icona ricorrente, la rosa. Si tratta delle rose del "mio giardino", come dice l'artista, di un qualcosa che la lega alla natura, ad un fare arte che non sia disgiunto dal quotidiano. Ma poi, al di là della nota tautologia di Gertrude Stein "rosa è una rosa una rosa una rosa", la rosa in realtà più che simbolo positivo per il suo profumo e per la sua bellezza – "rosa fresca aulentissima", dice Cielo d'Alcamo – è simbolo di drammaticità e di tristezza,  come se ne accorse quel Magnifico Lorenzo che cantava "[…] Così le [rose] vidi nascere e morire / e passar lor vaghezza in men d'un'ora […]" o François de Malherbe che, a sua volta, recitava "[…] ha vissuto quanto vivono le rose, lo spazio d'un mattino […]". Già qui possiamo cogliere come l'arte di Tagliatti non si colloca nello spazio rasserenante e pacificatore ma in uno più problematico e pensoso, fino a raggiungere la durezza "drammatica" di quelle spine di cui, si dice, non c'è rosa senza, come del resto è la vita.

Or dunque, al di là dei contenuti simbolici che possono essere colti nel soggetto ripetutamente riproposto, è notevole il fatto che Tagliatti – assai prima di tanti artisti che oggi praticano questa tecnica – usi il ricamo, oltre agli strumenti più abituali per la rappresentazione. Questo è un modo tipicamente femminile il cui recupero, una volta superato il fatto che le donne (artiste) debbano rassomigliare agli uomini, "è un tornare alle origini e ristabilire un antico ritmo naturale al respiro psichico femminile", come l'artista stessa ha scritto qualche anno fa.

Ora con gli Ostaggi l'opera di Tagliatti si "ammorbidisce", per così dire, cioè la rosa viene dipinta e trapuntata non più su un supporto bidimensionale bensì tridimensionale.

L'artista realizza, sempre con la forma di una rosa vista dall'alto, una sorta di materasso, soffice e accogliente, sul quale troviamo l'icona solita, pronto ad accogliere un giacente oppure abbandonato da questo, in ogni caso marcante un'assenza.

Così abbiamo un'unità di due "assenze": la rosa che, come abbiamo detto, dura "lo spazio d'un mattino" e un "letto" vuoto, entrambi oggetti dei quali il primo bello e profumato, e il secondo morbido ed accogliente, ma non indicanti gioia o piacere, bensì una certa malinconica tristezza, così come è la condizione dell'"ostaggio", che non è prigioniero in senso stretto ma neppure ospite libero, è solo in attesa, di …?, quindi in una condizione di non definitezza, di solitudine, di sospensione. In più, poiché la superficie su cui si esegue il ricamo è la stoffa per materassi, quella a strisce, il pensiero non può non andare alle "divise" di chi è in condizioni di non libertà.

Sensazioni, queste, che appunto nelle opere più recenti acquistano, anche matericamente, maggiore "spessore", più "corpo", "massa", che evitano la durezza della scultura ma, di questa, ne assumono le forme, il volume, lo spazio, andando a costituire un'opera indefinita sì, ma assai determinata e, diremmo, "dura" pur nella sua "mollezza".

La trapuntatura anche è più marcata, l'ago molto lungo deve penetrare da parte a parte, con un'operazione più faticosa ed incerta, ché qui si va al di là della superficie, per "ricucire – dice ancora Tagliatti – i due versanti, le due identità: il sopra e il sotto".

Va segnalato che, come prodromi di questi "ostaggi-materassi", l'artista ha realizzato, subito prima, degli "ostaggi-quadri", con lo stesso titolo, e gli stessi contenuti ed emozioni, ma di formato bidimensionale, i quali rispetto alle "rose" precedenti segnano una notevole mutazione. La rosa ora viene quasi celata da una garza, bianca o nera o di altro colore, per cui possiamo, anche in questo caso, avere una lettura duplice: da un lato abbiamo l'"occultamento" dell'immagine, rafforzata dalle nette suture-cuciture che legano la garza alla superficie sottostante, dall'altro, proprio perché si tratta di una garza leggera e trasparente, l'immagine è ben visibile, pur attraverso quella sorta di foschia, e le suture, assieme alla stessa velatura, in questo caso possono essere percepite come volontà di protezione della rosa, quindi dei contenuti dell'opera che sono la rappresentazione simbolica del sentire proprio dell'artista.

Orbene: la rosa come metafora della bellezza e della vita che occorre proteggere e conservare, in uno spazio capace e sensibile ad accoglierla, sia esso il morbido materasso o la lieve garza, perché già disse quel soave poeta quattrocentesco, Agnolo Ambrogini detto il Poliziano: "Mentre che il fiore è nella sua vaghezza / coglilo; ché bellezza poco dura. / Fresca è la rosa da mattino, e a sera /  ell'ha perduto suo' bellezza altera".

 

                                                                                                                                                              Giorgio Bonomi

sabato 28 giugno 2008

RICUCIRE

Tempo fa ho potuto apprezzare uno spettacolo teatrale di un attore clown,Slava Polunin1
artista mimo di origine russa; spettacolo, fatto di niente, di piccoli e teneri gesti, sospensioni lunghissime, silenzi profondi e cupa solitudine. Come scenografia, cieli blu imbottiti, densi come la neve e trapuntati come pareti di un inquietante isolamento; vuoto e pieno insonorizzato, dove il silenzio si fa ragnatela che imprigiona. Teatro circense, che emanava profonda desolazione, sospesa e alleggerita da un clima di tenerezza che sosteneva una forte impalcatura ironica, la quale riusciva a giustificare e a far accettare la solitudine urlata dai silenzi del clown.

Ho riconosciuto quella buffa solitudine, mi apparteneva, mi sono identificata in quel intimo vuoto insaziabile che si riempie dell'oblio di piccole banalità quotidiane e si consola nell'illusione di piccoli percorsi nuovi, affezioni apparentemente anestetizzanti.
Solitudine, graziosa, della stessa sostanza delle mie rose, cieli stellati imbottiti, costellazioni di spine, rose-materasso, come letti vuoti, corolle che accolgono e abbracciano morbidamente e desolatamente un non-corpo, fioretti alla solitudine, pesanti ostaggi, assenza che si fa corpo e invade lo spazio.

Pittura imbottita, trapuntata, e per la prima volta forse scultura, difficile da collocare, non si fa riconoscere, non so quale posto occupi e si porta certamente in sé il gene scenografico della scatola teatrale, con le sue metafore e l'ambiguità scenica tra la rappresentazione dell'oggetto e la visione bidimensionale di questo.
L'improvvisa esigenza di fisicità è sicuramente legata alla fatica del fare come terapia dell'essere, un abbracciarsi in un lavoro corpo a corpo; la materia è densa e grossa da attraversare da parte a parte con l'ago lunghissimo e la penetrazione è faticosa ed incerta, bisogna ricostruire, ricucendo i due versanti, le due identità: il sopra e il sotto, l'altra faccia del materasso.

Ricucire il passato, che sta alle spalle, con il futuro, disegno antistante, stringendo un sostanziale e concreto presente, corposo e aggettante.


1-Slava Polunin, considerato il più grande clown del mondo, propone uno spettacolo magico, che da più di venti anni appassiona e incanta le platee di tutto il mondo. Un artista polivalente che ha saputo rinnovare l'arte della clownerie, attingendo alla tradizione circense e all'espressione del mimo - da Chaplin a Marcel Marceau - intrecciandola con il rigore e la disciplina del lavoro dell'attore su se stesso di stanislavskiana memoria. www.labiennale.org
www.teatrovalle.it

mercoledì 25 giugno 2008

venerdì 13 giugno 2008

DI CHE COSA SI NUTRE LA POESIA?

BETTY DANON risponde. Con una ricerca artistica di trent'anni, fuori dagli
schemi, fuori dai circuiti abituali, libera di esplorare i punti d'incontro tra
il segno e la parola, tra il punto e la linea, tra l'essenzialità del bianco e
nero e la gioiosa vitalità del colore, tra l'arte e la vita.
In esposizione
alla galleria Maria Cilena di Milano, con inaugurazione il 22 maggio 2008, i
lavori più noti e quelli meno noti della poeta visuale Betty Danon, artista
concettuale e poeta visiva, attiva nel campo artistico italiano e
internazionale dal 1969 sino al 2002: le prime partiture, le finestre di cielo,
i lavori esposti alla Biennale di Venezia, e le poesie visuali nate in
Rainbowland e poi volate lontano ognuna in una direzione diversa, chi per posta
aerea, chi su ali d'angelo, chi via etere cavalcando i bit del suo computer.

Nata a Istanbul, cresciuta in scuole francesi e americane, si è trasferita a
Milano nel 1956 e ha preso la nazionalità italiana. L'attenzione al segno e al
linguaggio, in tutte le sue forme - dal tratto gestuale al suono e poi la
combinazione dei due - ha caratterizzato la sua ricerca artistica, a sua volta
riflesso di una profonda e incessante ricerca personale verso l'essenzialità
delle cose. Dopo aver sperimentato gli strumenti grafici ed espressivi
tradizionali - carta, cartone, tela, metallo - sono arrivati l'uso trasgressivo
della macchina fotocopiatrice, il coinvolgimento delle bande magnetiche
registrate, l'uso del video per documentare l'uso congiunto di suono e segno,
il contributo degli elementi della natura, l'adozione del pentagramma in tutte
le sue forme, l'esplosione nella dimensione internazionale attraverso la posta
aerea, la scoperta del libro come oggetto di comunicazione e divulgazione e
infine il computer, utilizzato sin dalle sue prime comparse nelle case private
e accompagnato nella sua rapida evoluzione hardware e software.
Ma l'attività artistica di Betty Danon è andata ben oltre, oltrepassando l'uso della materia
inerte per lavorare sul materiale artistico per eccellenza, l'essere umano. Nei
suoi atelier ha saputo trasformare la sua creatività in una particolare
frequenza dell'essere, comunicabile e in grado di innescare un cambiamento
interiore tale da indurre le persone a riconoscersi a loro volta creative,
dotate di originalità, iniziativa e autonomia, nel gioco - con carte colori e
parole - e nella vita. "Arte come vita" questa la parola d'ordine, questo il
nome dei suoi atelier che oggi sarebbero stati riconosciuti come veri e propri
percorsi di arteterapia. L'opera di tutta una vita profondamente intessuta di
poesia, quasi si fosse dedicata interamente a trovare la risposta
all'indovinello in turco, scandito dalla sua stessa voce, in una registrazione
del 1979, nell'audiocassetta dell'artista svizzero Ruedi Schill: "Di che cosa
si nutre la poesia?". E la risposta non può che essere una sola: "Di poesia",
naturalmente!
Partita per Rainbowland, il suo magico mondo di poesia, nell'aprile del 2002, i suoi lavori sono oggi al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto ­ dove è custodito anche il suo archivio ­, presso The Museum of Modern Art di New York, nel dipartimento di Rare Books
della Ohio State University, al The Getty Research Institute, negli archivi Sackner e in musei e biblioteche di più di 25 nazioni di tutto il mondo. www.bettydanon.it


MARIA CILENA - STUDIO PER L'ARTE CONTEMPORANEA

Via C. Farini 6 - 20154 Milano

Tel. +39 02 29013026 Fax +39 02 62027292

giovedì 5 giugno 2008

EUGENIO MICCINI



Firenze, Studio d'Arte Aurelio Stefanini

10 maggio – 15 settembre 2008

A cura di Aurelio Stefanini

SARENCO “SONO UN POETA DI MONTAGNA”


Brescia, Fondazione Berardelli

30 Maggio – 15 Luglio 2008

Di Nicole Zanoletti





domenica 25 maggio 2008

L'opera di Mona Hatoum metafora dell'expanding self

L'opera di Mona Hatoum è influenzata dalla metafora dell'expanding self. Lucy Lippard afferma che l'uso da parte degli artisti dell'expanding self è una metafora per rimuovere i confini dell'identità individuale verso l'esterno allo scopo di includere altre donne e altre persone. Il postmoderno afferma che il sé è un ibrido e non è un essere fissato o una data essenza. Il sé è iscritto in diversi luoghi e diverse tradizioni discorsive, che cambiano e mutano.Mona Hatoum rappresenta un "estranged self ", in esilio dalla lingua e dalla sua identità originaria. L'artista palestinese connette distanza, memoria e identità al corpo materno. In Measures of Distances, del 1988, lo straniamento dal corpo materno e dalla terra madre è codificato figurativamente nelle iscrizioni arabe delle lettere inviate dalla madre alla figlia in esilio. Hatoum stabilisce una serie di collegamenti tra il corpo femminile, l'identità soggettiva e lo sguardo etnocentrico. Nonostante nelle opere iniziali l'artista abbia usato il suo corpo nelle performance come una metafora dell'oppressione razziale e sessuale, qui il corpo dell'artista è assente dalla rappresentazione.
L'immagine multistrato dei frammenti della lingua materna, della tristezza della voce narrante suggerisce un continuo dialogo tra madre e figlia oltre la distanza e il tempo. L'identificazione nella sessualità della madre e del suo esilio dal corpo e dalla terra materna sono costantemente
evocate. Le linee della scritta formano una barriera permeabile quasi come un filo spinato tra il soggetto e il pubblico, distanza resa ancor più potente per coloro che non parlano arabo e che non sono in grado di leggere la scritta. La parola scritta diventa la life-line, un cordone ombelicale che collega la figlia alla madre.
Secondo Desa Philippi l'opera di Hatoum richiama la proposta di Paul Gilroy secondo la quale noi, come soggetto, abbiamo bisogno di posizioni altre rispetto a quelle del carnefice attivo o della vittima passiva. Gilroy auspica la figura dello spettatore attivo, dell'osservatore impegnato in grado di riflettere e interagire col mondo piuttosto che lo spettatore passivo, incapace di elaborare e chiuso nel proprio mondo. La nostra posizione come testimoni può sfidare l'interpretazione degli eventi e conferire loro nuovi significati. L'identità presuppone l'abilità di agire con le proprie narrative, con la storia e nella cultura.

( Il presente lavoro è tratto dalla tesi di laurea di Stefania Lodi Rizzini intitolata "Identità femminile nell'arte contemporanea
britannica)

Mona Hatoum: riconoscere la prigione


Un carcere franchista del Novecento, quello di Salamanca, edificio imponente, sede di chissà quante ingiustizie e sofferenze, è stato recentemente trasformato, in un centro di arte contemporanea ("Centro de Arte de Salamanca" - CASA). Le anguste celle dove vivevano i prigionieri del franchismo sono state conservate nel loro tetro aspetto originale, mentre a dare l'incipit alla costituzione di una collezione permanente è stata chiamata l'artista palestinese Mona Hatoum, che ha interpretato una delle pesanti porte girevoli di metallo dell'antico carcere come l'occasione di un'interazione fra il centro e i visitatori (questi passano ad uno ad uno attraverso la porta girevole, che li rinserra in un cunicolo mobile claustrofobico, mentre il ritmo regolare del movimento della porta è scandito dal friggere spettrale di alcuni pallidi neon. Ma Mona Hatoum è artista capace non solo di trasformare un vero carcere in un'opera o in un'occasione d'arte, la quale innesta il sentimento della prigionia negli spettatori, ma anche di cogliere le situazioni carcerarie che si annidano in quella finzione che chiamiamo la nostra libertà quotidiana, e che viene passivamente accettata come tale nell'ottundimento generale del pensiero critico. Mona Hatoum rivela l'amarezza del mondo che a volte si cela nella routine attraverso diverse strategie di straniamento. Una di esse è l'ingigantimento: gli oggetti quotidiani, una volta ingranditi a dismisura, si rivelano spesso minacciosi. Ed ecco che una grattugia gigante diventa la membrana impenetrabile di uno spazio carcerario, come nell'opera del 2002 "Grater Divide" ("grattugia/separè"), il cui titolo inglese gioca con le omofonie delle parole "greater", "più grande" e "grater", "grattugia", per segnalare il confino domestico nel quale le pratiche quotidiane della preparazione dei pasti segregano la donna palestinese.
Oppure un macinino da caffè si trasforma in un oggetto mostruoso, a metà strada fra il carroarmato e la formica assassina. In altri casi, Mona Hatoum lavora aggiungendo trame o dettagli inquietanti agli spazi della quotidianità. Si consideri, come esempio di questa seconda strategia, l'installazione, presentata nel 2000 a Documenta 11 ed intitolata "Homebound" (che si potrebbe tradurre, non letteralmente ma rendendo il senso del gioco di parole, con "vincolo
familiare"), in cui lo spettatore è posto di fronte ad una casa elettrificata, ove ogni oggetto emana la minaccia di una scossa. Infine, una terza strategia consiste nell'arrangiare gli oggetti in modo inusuale, o di modificarli leggermente, così da estrarne il demone nascosto. Si pensi a come l'artista condensi il vortice dell'alcoolismo, altra prigione di molte vite vissute nel chiuso delle mura domestiche, in un circolo vizioso formato da bottiglie ("Vicious Circle" - "circolo vizioso", opera presentata per la prima volta nel1999): Questo ed altri letti di Procuste attendono ancora il loro Foucault.

Tratto da:" Architetture per sorvegliare e punire" Massimo Leone Golem, n. 1, gennaio 2003

L’IDEOLOGIA COME DECORAZIONE E L’ARTE COME INVENZIONE

Nicolas Bourriud

La perplessità degli artisti all’evocazione della parola “arte” la dice più lunga sull’evoluzione del pensiero contemporaneo che tanti trattati di estetica.

Ma il termine non è privo di senso, al contrario: trabocca, al punto che oggi sarebbe difficile vedervi altro che una piattaforma costituita dalla sedimentazione dei suoi significati successivi….”Arte” è diventata una parola-parking che si svuota e si riempie in permanenza, di volta in volta ingorgata o disattesa, e posta sotto la tele-sorveglianza dei critici-controllori.
O anche una parola-poltrona, che la società dello spettacolo impiega solo per adagiarvi meglio la sua buona coscienza culturale.

Quale potrebbe essere il punto comune tra l’insieme degli oggetti e dei luoghi raggruppati sotto il vocabolario “arte mussulmana”, un saggio di Daniel Buren, l’arte naif, la decorazione, l’artigianato pittorico che consiste nel produrre dei begli oggetti, ed un “pensiero visuale” operante in situ? Una tale “locanda spagnola” continua si a significare qualcosa, ma al modo dei gioielli di famiglia, o delle parole ad uso comune.
E tuttavia parecchi artisti continuano a fare riferimento a definizioni dell’arte millesimate, imbottigliate ai tempi di Mondrian e Braque, o di Marie Lorencine. Ma ci sembra impossibile, sostenere seriamente che un artista contemporaneo, anche se utilizza – e non è poi molto frequente – i metodi e i supporti di un artista del XIX secolo, condivida con lui qualcos’altro che un sentimento di appartenenza a una corporazione, e la ricerca di una competizione spirituale con gli stessi fantasmi …Che cosa definisce un’attività se non i suoi obiettivi e la sua funzione sociale? Entrambi sono cambiati così radicalmente a partire dall’inizio del secolo e, di nuovo, dopo ventenni, che non intrattengono che dei rapporti tanto lontani – e tanto poco essenziali – quanto quelli che una bicicletta può avere con un’auto da corsa: il circuito non è più lo stesso e nemmeno i mezzi…
Tutto qui, ma non è poco.

L’idea che esista una ”essenza” immutabile dell’attività artistica, definita una volta per tutte e valida dalla grotta di Lascaux alle piantagioni di querce beuysiane, non serve altri interessi che la società dello spettacolo: se l’arte è data una volta per tutte, le deviazioni e i refusi non possono prestarsi ad alcuna conseguenza…Se l’arte è un campo chiuso, che non permette che un numero limitato di colpi, uscirne equivale a marginalizzarsi, a ritrovarsi fuori gioco, fuori dalla linea storica che giustifica e organizza l’attività artistica.
Pensare che l’arte sia una nozione data una volta per tutte è certo negare la sua storicizzazione come modello a profitto della storicizzazione dei suoi prodotti: le opere, gli stili. Significa evitare di porre la questione della natura, del ruolo e degli obiettivi che ogni società assegna ai suoi artisti, evitare di cercare di sapere come il potere controlla il fatto artistico, attraverso i modelli successivi che gli si propongono; ed inoltre significa rifiutare anche di vedere che la grandezza degli artisti odierni risiede in parte nella deformazione di quei modelli, e nella ricerca di altre strutture suscettibili di sopportare il loro discorso.
Non è un caso se gli artisti non cercano più veramente di sapere che cos’è l’arte: essi sanno troppo bene che cosa si nasconde dietro l’idealismo che consiste nel porre l’arte come un fatto acquisito.

Nulla è meno sicuro, infine, che l’esistenza di un’attività denominata “arte” !!!

Questo slittamento, ricondotto in ambito filosofico, è ancor più patetico: così quei critici che applicano alla lettera i programmi di Kant o di Hegel senza rendersi conto che l’oggetto dell’estetica si è trasferito. Oggi sappiamo che l’estetica non è affatto la scienza dell’arte, ma un modo di conoscenza storicizzato, valido in un dato momento, riguardante un certo tipo di arte, e mantenuto in respirazione artificiale da un buon numero di critici, come se lo sguardo sull’arte non potesse esercitarsi se non a partire dalle regole canoniche dello studio della percezione. Ecco di cos’è fatta la nostra attualità: dotti osservatori che applicano griglie dell’altro ieri su delle opere di ieri; artisti che fingono di dialogare con Rembrandt per meglio evitare di guardare i loro vicini di pianerottolo; messa in questione dei modelli storici da parte di estetologi che ignorano i modelli reali delle arti contemporanee. Se la critica si nutre di questi cadaveri teorici, è perché la loro carne molle le permette di mantenere senza troppa fatica l’illusione di avere ancora denti buoni per masticare.

Tratto dall’articolo di Flash Art anno XXV –N°167 aprile-maggio 1992

giovedì 8 maggio 2008

COME

LA TECNICA SECONDO HEIDEGGER fa proprio l'ultimo passo sulla via dell'eliminazione di ogni residua differenza tra realtà "vera" e realtà "empirica".
L'organizzazione totale attuata dalla tecnica non è più solo nella teoria, ma si concreta effettivamente come ordine del mondo. "il linguaggio è la casa dell'essere" il linguaggio è la custodia della presenza.
Il linguaggio è annuncio, appello, e usa l'uomo come proprio messaggero.
Il linguaggio è monologo, cioè, è il linguaggio soltanto che parla, e parla esso solo.

"il linguaggio è la sede dell'evento dell'essere"

Le cose non sono anzitutto e fondamentalmente cose in quanto presenti nel "mondo esterno", ma nella parola che le nomina originariamente e le rende accessibili anche nella presenza spazio-temporale.
Il pensiero è fondamentalmente un ascolto del linguaggio nella sua originaria poeticità, per questo l'elemento, dentro cui la nostra esistenza si svolge, è la vicinanza di pensare e poetare.
In quanto è ascolto del linguaggio, il pensiero è ermeneutica. ( dottrina dell'interpretazione).

Heidegger


" La tecnica, ormai, non esiste. E' un'illusione." È il nostro modo arcaico di trasformare la natura a nostra immagine e somiglianza, modificando i nostri gesti quotidiani in atti eterni e divini che ci resistano, che sopravvivano a noi.
Quello che abbiamo perso è quel sentimento rinascimentale di dominio del nostro fare, che rassicurava la nostra esistenza, che ci permetteva di immaginare e costruire con le nostre mani un chiaro percorso della nostra vita in equilibrio con il mondo; la tecnica era questo, un metodo scientifico per costruire e dominare il nostro destino.

E' proprio vero che l'Arte è morta e noi viviamo costantemente con il suo rimpianto, cercando con struggente sentimento di nostalgia, con gli occhi, qualsiasi cosa che in natura possa ricordarcela.

In questa breve epoca di non senso( breve perché è vicina al collasso), dominata dal caos, dove siamo costretti a vivere nella perenne contraddizione e in continuo pericolo di vita, il senso della tecnica, come dominio del nostro fare non può esistere, si è sostituita, per noi artisti, con la ricerca degli occhi.
Gli occhi cercano ovunque con il desiderio di ritrovare un senso delle mani e si soffermano sulla Natura perché è l'unica che possiede ancora il segreto del tempo, nelle fasi di un divenire.

Ora che l'uomo è in una fase di grande evoluzione e la sua capacità di percezione si è modificata come la sua concezione del tempo, che sicuramente è più compressa, più accorciata, come si è accorciato il gesto del suo braccio, mi interessa il tempo di durata dell'attraversamento del fare che si forma nell'emotività soggettiva dell'esperienza.

Penso che la forza di un lavoro derivi dalla scelta di un soggetto che è già un significante e dalla riduzione o semplificazione della volontà narrativa che si ha nelle mani.

La scelta di una tecnica è già nella scelta del soggetto stesso; è la sintesi di ciò che è il soggetto scelto e ciò che si diventa davanti ad esso. E' sempre un rapportarsi, un varcare la soglia tra dentro e fuori, senza mai esporsi troppo. Spostare l'attenzione sul "fare arte" è per me, il vero soggetto e contenuto che rincorro costantemente.

Affermando che la "tecnica non esiste", dichiaro che questa non è più uno strumento d'espressione, ma l'ESPRESSIONE , il significante dell'opera.

martedì 6 maggio 2008

ATELIER, stanza del fare

La terra possiede l’energia vitale della germinazione e la capacità di rigenerare continuamente il ciclo della vita e della morte.

L’occuparmi di un giardino, per la prima volta nella mia vita e doverlo organizzare, dividendolo in spazi e percorsi con specifiche funzioni, dando loro relative fisionomie paesaggistiche adeguate alla sosta e alle esigenze del pensiero, mi ha fatto scoprire cosa significa avere un rapporto diretto con questa e quanto intenso possa essere lo scambio reciproco.

Nell’intercalare delle stagioni, ho scoperto un tempo naturale al quale è legata obbligatoriamente la nostra vita e che scandisce il nostro respiro e ci accomuna così con le piante; affinando una sensibilità e un’attenzione alla natura che rivela un atteggiamento zen verso il tempo e lo spazio.

Coltivare le rose del mio giardino e sentire l’esigenza di inserirle come soggetto nel mio lavoro, si veste di una ritualità che si avvicina a quella orientale del culto del thé; dove veniva, per l’occasione, sacrificata la vita di un fiore che assumendo in quel caso il significato simbolico della vita in senso lato, aveva bisogno, proprio per sottolineare questo senso sacrificale, di una collocazione e disposizione estetica in uno spazio, la stanza del thé, riservato e costruito appositamente per questa cerimonia religiosa.

Per raggiungere questo spazio di culto, bisognava attraversare un giardino, che in questo caso esercitava il ruolo di percorso meditativo, con la funzione di liberare l’animo dalla pesantezza dei pensieri quotidiani e prepararlo ad accogliere il rito purificante del thé.

Nel mio caso, il rito purificante è il fare arte e anche per me, prima di entrare,nella stanza del fare, cioè nell'atelier devo passare attraverso un giardino, che ha il ruolo di ricomporre il mio equilibrio interiore ricollocandomi in una giusta dimensione energetico-esistenziale.

lunedì 5 maggio 2008

RESPIRARE LENTAMENTE


E' tornato il caldo e sono sbocciate le rose in giardino.

La vita qui è scandita da piccoli gesti di cura ,che rassicurano il respiro.

Tutto va avanti serenamente .

La serenità è uno stato d'animo fuori moda, come la regolarità del battito cardiaco e la lentezza del sorgere del sole.

Mi meraviglio sempre di scoprire come il mio lavoro sia estremamente astratto: "gioco sulla superficie, con i materiali e uso un'immagine solamente come veicolo, che mi introduce in un viaggio alla ricerca del senso della perdita di senso".

ostagio n°2 2008

ostagio n°2            2008
dimensioni cm.250x240x29 tecnica : pittura su stoffa, imbottitura di cotone e trapuntatura da materasso

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Ferrara, Fe, Italy
vivo e lavoro in provincia di Ferrara come artista (per tutta una serie di motivi...)