lunedì 1 novembre 2010

ENSIMISMAMIENTO ovvero l’arte d’inabissarsi in sé



Chiara Gatti

Povero Ortega y Gasset. Il celebre filosofo madrileno (1883-1955) credeva, quando redasse il suo saggio Ensimismamiento y alteración, di aver utilizzato un termine così specifico da risultare intraducibile, tanto da poterne reclamare sempre la paternità. Ensimismamiento, vocabolo bellissimo della favella spagnola, che rotola sulla lingua come una tentazione, doveva rappresentare infatti nelle sue intenzioni la parola perfetta per alludere a quel dialogo intimo che la persona ingaggia con se stessa, esattamente come recita la definizione da vocabolario: «abstracción del mundo exterior, concentrándose en los propios pensamientos». Affascinante.
Peccato che Ortega non avesse fatto i conti con il “sommo poeta”. Dante, con qualche secolo d’anticipo, fra le pagine della Commedia, nel nono canto del Paradiso, in uno scambio di battute con Folco da Marsiglia, si ritrovò (guarda caso) a dire: «già non attendere’ io tua dimanda, 
s’io m’intuassi, come tu t’inmii». Il padre della lingua italiana fu inventore insomma, a suo tempo, di un neologismo pronominale utile proprio a indicare una forte immedesimazione nell’altro, ma soprattutto a comunicare un senso di inabissamento nei meandri della coscienza. Un “ensimismamiento” in salsa stilnovista – potremmo dire – utilissimo per andare a pescare nel profondo della personalità… dei nostri simili, ma soprattutto della propria.
Ne sa qualcosa Ketty Tagliatti che, scegliendo la rosa come simbolo di questa meditazione, ha reso un’iconografia vecchia come il mondo pretesto per una ricerca sul “dentro”, sul dialogo con se stessi, sulla necessità (godiamo di un altro neologismo) di “instessarsi”, immaginando i gorghi dell’interiorità come fossero i meandri, le anse, le sinuosità e i dedali che s’attorcigliano fra i petali carnosi di un fiore. In questo modo Ketty scalza le metafore tradizionali legate al senso della rosa, non cade nella trappola della citazione o dell’emblema caro all’immaginario comune, per proiettarne invece la forma in un’altra dimensione. Un po’ come aveva fatto Giorgio Morandi con le sue bottiglie, affidando loro le sue ansie di equilibrio. Ma, forse, di più ancora, Gianfranco Ferroni con i suoi oggetti polverosi su tavolini fragili, «alibi – diceva – per indagare e valorizzare lo spazio e la luce». Allegoria di un luogo privato, «la polvere – continuava – è importante quanto un universo, perché nel micro c’è il macro, nell’impercettibilmente piccolo c’è il grandissimo».
E nel cuore della rosa c’è, di fatto, tutto un mondo per Ketty Tagliatti. Ci sono segreti, sentimenti, inquietudini, nodi da sciogliere e cose non dette; pensieri così tortuosi da rischiare di inghiottire chi s’avvicina troppo, meraviglia carnivora dentro cui entrare di testa, come nella quarta dimensione (Fontana avrebbe apprezzato) dell’anamorfosi costruita sapientemente a quattro mani con Elisa Leonini e sbocciata in galleria, gigantesca corolla che sembra aprirsi e chiudersi come un sipario intermittente, con un ingresso preciso dietro il quale sparire.
E torna in mente ancora Ortega quando affermava: «faccio sentire al lettore quanto mi interessa che lui sia presente. È come se lui percepisse una mano ectoplasmatica che, emergendo fra le righe, palpa la sua persona, la accarezza, oppure le sferra un pugno. Così entra in dialogo col libro».
Anche le rose di Ketty ci palpano per bene. Come la mano del fantasma di Catherine che, in Cime Tempestose, afferrava dalla finestra il braccio del viandante spaurito. O come lo scrittore curioso di Calvino che, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, guardava con il binocolo la sua lettrice intenta a leggere le pagine del libro che lui avrebbe a sua volta scritto per lei. Il racconto di Ketty è allo stesso modo un gioco di scatole cinesi che si schiudono le une sulle altre proprio come petali di un fiore che ti accarezza, ti avviluppa, ma poi – all’improvviso – ti punge con le sue spine aguzze quanto spilli, ti strazia, ti fa male dentro, castigandoti per aver scavato (ensimismado!) troppo a fondo nei tuguri dell’anima, oltre la cortina semitrasparente, il velo, il separè che divide l’apparenza dalla sostanza delle cose, la pelle dal cuore.
Sporgersi troppo verso il nocciolo della rosa, si sa, è una brama, una lusinga cui è difficile resistere, se non altro per il piacere di sentirne il profumo, di strizzare gli occhi nel suo bulbo e mettere a fuoco quel ricamo certosino che, lento come una nenia, al ritmo di una litania, cuce foglie su foglie, aculei e pistilli. Ma intesse anche altri sipari, tendine tese su diorami dell’anima, valige del buon ricordo, gli ultimi teatrini di Ketty che, come i libri di Ortega esigono una partecipazione del lettore, lo invogliano a sbirciare dentro cosa si nasconde: ninnoli, conchiglie, piume, altri petali e altre spine, souvenir di un viaggio intimo dove perdersi a caccia di ricordi, per cominciare a “instessarsi” come lei “s’inleia”.

Nessun commento:

ostagio n°2 2008

ostagio n°2            2008
dimensioni cm.250x240x29 tecnica : pittura su stoffa, imbottitura di cotone e trapuntatura da materasso

Informazioni personali

La mia foto
Ferrara, Fe, Italy
vivo e lavoro in provincia di Ferrara come artista (per tutta una serie di motivi...)