
L'immagine multistrato dei frammenti della lingua materna, della tristezza della voce narrante suggerisce un continuo dialogo tra madre e figlia oltre la distanza e il tempo. L'identificazione nella sessualità della madre e del suo esilio dal corpo e dalla terra materna sono costantemente
evocate. Le linee della scritta formano una barriera permeabile quasi come un filo spinato tra il soggetto e il pubblico, distanza resa ancor più potente per coloro che non parlano arabo e che non sono in grado di leggere la scritta. La parola scritta diventa la life-line, un cordone ombelicale che collega la figlia alla madre.
Secondo Desa Philippi l'opera di Hatoum richiama la proposta di Paul Gilroy secondo la quale noi, come soggetto, abbiamo bisogno di posizioni altre rispetto a quelle del carnefice attivo o della vittima passiva. Gilroy auspica la figura dello spettatore attivo, dell'osservatore impegnato in grado di riflettere e interagire col mondo piuttosto che lo spettatore passivo, incapace di elaborare e chiuso nel proprio mondo. La nostra posizione come testimoni può sfidare l'interpretazione degli eventi e conferire loro nuovi significati. L'identità presuppone l'abilità di agire con le proprie narrative, con la storia e nella cultura.
( Il presente lavoro è tratto dalla tesi di laurea di Stefania Lodi Rizzini intitolata "Identità femminile nell'arte contemporanea
britannica)
Mona Hatoum: riconoscere la prigione
Un carcere franchista del Novecento, quello di Salamanca, edificio impone
nte, sede di chissà quante ingiustizie e sofferenze, è stato recentemente trasformato, in un centro di arte contemporanea ("Centro de Arte de Salamanca" - CASA). Le anguste celle dove vivevano i prigionieri del franchismo sono state conservate nel loro tetro aspetto originale, mentre a dare l'incipit alla costituzione di una collezione permanente è stata chiamata l'artista palestinese Mona Hatoum, che ha interpretato una delle pesanti porte girevoli di metallo dell'antico carcere come l'occasione di un'interazione fra il centro e i visitatori (questi passano ad uno ad uno attraverso la porta girevole, che li rinserra in un cunicolo mobile claustrofobico, mentre il ritmo regolare del movimento della porta è scandito dal friggere spettrale di alcuni pallidi neon. Ma Mona Hatoum è artista capace non solo di trasformare un vero carcere in un'opera o in un'occasione d'arte, la quale innesta il sentimento della prigionia negli spettatori, ma anche di cogliere le situazioni carcerarie che si annidano in quella finzione che chiamiamo la nostra libertà quotidiana, e che viene passivamente accettata come tale nell'ottundimento generale del pensiero critico. Mona Hatoum rivela l'amarezza del mondo che a volte si cela nella routine attraverso diverse strategie di straniamento. Una di esse è l'ingigantimento: gli oggetti quotidiani, una volta ingranditi a dismisura, si rivelano spesso minacciosi. Ed ecco che una grattugia gigante diventa la membrana impenetrabile di uno spazio carcerario, come nell'opera del 2002 "Grater Divide" ("grattugia/separè"), il cui titolo inglese gioca con le omofonie delle parole "greater", "più grande" e "grater", "grattugia", per segnalare il confino domestico nel quale le pratiche quotidiane della preparazione dei pasti segregano la donna palestinese.

Oppure un macinino da caffè si trasforma in un oggetto mostruoso, a metà strada fra il carroarmato e la formica assassina. In altri casi, Mona Hatoum lavora aggiungendo trame o dettagli inquietanti agli spazi della quotidianità. Si consideri, come esempio di questa seconda strategia, l'installazione, presentata nel 2000 a Documenta 11 ed intitolata "Homebound" (che si potrebbe tradurre, non letteralmente ma rendendo il senso del gioco di parole, con "vincolo
familiare"), in cui lo spettatore è posto di fronte ad una casa elettrificata, ove ogni oggetto emana la minaccia di una scossa. Infine, una terza strategia consiste nell'arrangiare gli oggetti in modo inusuale, o di modificarli leggermente, così da estrarne il demone nascosto. Si pensi a come l'artista condensi il vortice dell'alcoolismo, altra prigione di molte vite vissute nel chiuso delle mura domestiche, in un circolo vizioso formato da bottiglie ("Vicious Circle" - "circolo vizioso", opera presentata per la prima volta nel1999): Questo ed altri letti di Procuste attendono ancora il loro Foucault.
Tratto da:" Architetture per sorvegliare e punire" Massimo Leone Golem, n. 1, gennaio 2003
2 commenti:
É stata un'esperienza notevole poter vedere da vicino le opere di un'artista come la Hatoum e scoprire che alcune di quelle opere le avevo già viste in precedenza e che mi erano rimaste nella memoria. Stimolano sensazioni e sentimenti contrastanti, tra il divertimento, l'insofferenza e la sofferenza. Spesso spiazzano. E questo è bene.
Antonella
è vero!!
Mona Hatoum è una grande e sono molto felice che per la Biennale Donna abbiano scelto proprio lei per rappresentarci.
anche tu usi nel tuo lavoro questo modo di sorprendere spiazzante che diventa ancor più forte perché è veicolato dall'ironia.
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